Nel significato religioso, confessare un peccato, significa liberami dell'impurità e delle responsabilità morali che ne derivano e, quindi, riacquistare la perduta innocenza e purezza. Peraltro, alle origini della confessione vi è un rituale di purificazione fondato sulla fiducia nel valore magico della parola: espulsa la parola, è anche espulso il peccato, poiché «il nome del peccato entro un determinato rituale può identificarsi con il peccato stesso» . In questo senso, il sacramento della confessione rappresenta un fenomeno che coinvolge anche l'ambito non direttamente religioso; in letteratura, infatti, la magia della parola entra a far parte delle metamorfosi della retorica. Non a caso, dunque, alcune celebri opere letterarie, esplicitamente religiose, o apparentemente profane, sono intitolate "Confessioni". Ebbene, il tema della confessione, pur se esplorato sotto il profilo giuridico — o meglio, processual-penalistico — rimanda, in maniera immediata, all' "originale" sacramento cattolico della "remissione dei peccati", istituito, secondo la tradizione, durante una delle prime apparizioni del Signore ai discepoli. Le problematiche dell'istituto confessorio, invero, sia pure radicalmente avulse dai profili mistici che ne connotano il momento propriamente sacramentale, agevolano l'individuazione di punti di contatto tra l'esperienza giuridica e quella religiosa soprattutto attraverso l'immagine che la nozione di confessione evoca. Il concetto, infatti, racchiude l'idea di ammissione di verità pregiudizievoli e, comunque, di negatività ineffabili. Certo, la macchina processuale non si attiva a seguito della violazione di regole morali o principi religiosi; pur tuttavia, la confessione, almeno da un punto di vista definitorio, rimanda ad un'idea di esternazione — degli addebiti — a cui si connette una conseguenza sanzionatoria — pena. E sembra che proprio su questo versante il legislatore si sia mosso per definire la confessione nel processo civile. Analogo percorso — si chiarisce subito — non sembra si possa attagliare al processo penale, ove difetta una nozione esplcita di confessione; comunque, anche in tale ambito essa rievocherà la struttura posta a base delle riflessioni che precedono e consistente nell'effetto pregiudizievole quale conseguenza dell'esplicitazione di un male. Simile premessa proietta verso la individuazione delle diverse dimensioni, all'interno dei singoli apparati processuali, rispetto alle quali.è pdisibile scrutare quell'istituto, convenzionalmente denominato "confessione". Il codice civile, all'art. 2730, definisce la confessione come la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte. Da un punto di vista assiologico, si nota come sia possibile rinvenire, in maniera evidente, elementi di assonanza tra confessione, religiosamente intesa, e la matrice euristica dell'omonimo istituto processual-civilistico. Invero, già dalla tradizione romanistica, la confessio in iure realizzava una possibilità di anticipata risoluzione della controversia, permettendo di equiparare al iudicatus il confessus che si fosse riconosciuto debitore di una somma certa e liquida, con il risparmio tangibile di attività cognitorie nel giudizio; allo stesso modo, nel processo civile la dichiarazione confessoria contiene il riconoscimento espresso di un fatto obiettivamente pregiudizievole per gli interessi del dichiarante, sempre che il medesimo sia favorevole alla controparte che, affermandolo come vero, glielo oppone. Non stupisce, allora, che nelle usuali movenze del linguaggio corrente, la confessione venga a delinearsi quale species, normativamente disciplinata, del genus «ammissione». Analoga operazione non può essere esperita per il processo penale; ove, come accennato, mancano sicuri capisaldi ai quali ancorare la nozione di confessione ovvero allignare una disciplina organica dell'istituto. Pur tuttavia, la esiguità di riferimenti normativi alla dichiarazione confessoria non deve indurre a ritenere che il legislatore si sia del tutto disinteressato alle problematiche concernenti l'acquisizione della contra se declaratio o che abbia inteso affidare le dinamiche della sua apprensione alle pericolose maglie della pratica giudiziale. L'interesse al tema, infatti, è fornito proprio dal fatto che, allo stato, esiste un corpus di norme, distribuito lungo tutto il sistema, che mirano, sia pur implicitamente, a prevenire possibili forme di costrizione fisica e morale, finalizzate all'ottenimento della confessione. Non si può parlare di un disegno organico, quanto piuttosto dì singole disposizioni che, in punti cruciali del sistema, si preoccupano di salvaguardare la libertà del soggetto cum quo res agitur per evitare che quest'ultimo venga leso nel suo fondamentale diritto alla prova. Dunque, lo spunto all'approfondimento speculativo scaturisce proprio dalla natura "ibrida" che il legislatore sembra assegnare alla confessione e, così, dalla polifunzionalità che l'istituto irradia all'interno dei diversi segmenti procedimentali. Infatti, se da un lato il legislatore non annovera la confessione tra i mezzi di prova tipici disciplinati al libro terzo del codice di rito, non sfuggirà che essa sembrerebbe sottratta —come ritenuto, tra l'altro, dalla giurisprudenza prevalente — ai parametri di valutazione probatoria cristallizzati all'art. 192 c.p.p. commi 3 e 4 c.p.p., apparendo come una prova dichiarativa "piena", e perciò insuscettiva di riscontro. Sotto diverso profilo, poi, alla confessione si conferisce una veste assolutamente singolare nell'assegnarle valore "propulsivo" ai fini della instaurazione del giudizio direttissimo: in tale contesto, addirittura, la confessione viene consacrata a mo' di "prova evidente", in deciso contrasto rispetto alla scelta di "esclusione" operata per la redazione del libro terzo. In questi passaggi, sembra compendiarsi un atteggiamento poco coerente del legislatore tale da impedire di fissare parametri di uniformità ai quali ispirare un discorso omogeneo sul tema della "confessione viene sollecitato, pertanto, l'interesse ad un approfondimento che pretenda proprio di individuare le linee di orientamento che hanno mosso il legislatore a richiamare, di volta in volta, l'attenzione sull'istituto confessorio.
Confessione
GRIFFO M
2007-01-01
Abstract
Nel significato religioso, confessare un peccato, significa liberami dell'impurità e delle responsabilità morali che ne derivano e, quindi, riacquistare la perduta innocenza e purezza. Peraltro, alle origini della confessione vi è un rituale di purificazione fondato sulla fiducia nel valore magico della parola: espulsa la parola, è anche espulso il peccato, poiché «il nome del peccato entro un determinato rituale può identificarsi con il peccato stesso» . In questo senso, il sacramento della confessione rappresenta un fenomeno che coinvolge anche l'ambito non direttamente religioso; in letteratura, infatti, la magia della parola entra a far parte delle metamorfosi della retorica. Non a caso, dunque, alcune celebri opere letterarie, esplicitamente religiose, o apparentemente profane, sono intitolate "Confessioni". Ebbene, il tema della confessione, pur se esplorato sotto il profilo giuridico — o meglio, processual-penalistico — rimanda, in maniera immediata, all' "originale" sacramento cattolico della "remissione dei peccati", istituito, secondo la tradizione, durante una delle prime apparizioni del Signore ai discepoli. Le problematiche dell'istituto confessorio, invero, sia pure radicalmente avulse dai profili mistici che ne connotano il momento propriamente sacramentale, agevolano l'individuazione di punti di contatto tra l'esperienza giuridica e quella religiosa soprattutto attraverso l'immagine che la nozione di confessione evoca. Il concetto, infatti, racchiude l'idea di ammissione di verità pregiudizievoli e, comunque, di negatività ineffabili. Certo, la macchina processuale non si attiva a seguito della violazione di regole morali o principi religiosi; pur tuttavia, la confessione, almeno da un punto di vista definitorio, rimanda ad un'idea di esternazione — degli addebiti — a cui si connette una conseguenza sanzionatoria — pena. E sembra che proprio su questo versante il legislatore si sia mosso per definire la confessione nel processo civile. Analogo percorso — si chiarisce subito — non sembra si possa attagliare al processo penale, ove difetta una nozione esplcita di confessione; comunque, anche in tale ambito essa rievocherà la struttura posta a base delle riflessioni che precedono e consistente nell'effetto pregiudizievole quale conseguenza dell'esplicitazione di un male. Simile premessa proietta verso la individuazione delle diverse dimensioni, all'interno dei singoli apparati processuali, rispetto alle quali.è pdisibile scrutare quell'istituto, convenzionalmente denominato "confessione". Il codice civile, all'art. 2730, definisce la confessione come la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte. Da un punto di vista assiologico, si nota come sia possibile rinvenire, in maniera evidente, elementi di assonanza tra confessione, religiosamente intesa, e la matrice euristica dell'omonimo istituto processual-civilistico. Invero, già dalla tradizione romanistica, la confessio in iure realizzava una possibilità di anticipata risoluzione della controversia, permettendo di equiparare al iudicatus il confessus che si fosse riconosciuto debitore di una somma certa e liquida, con il risparmio tangibile di attività cognitorie nel giudizio; allo stesso modo, nel processo civile la dichiarazione confessoria contiene il riconoscimento espresso di un fatto obiettivamente pregiudizievole per gli interessi del dichiarante, sempre che il medesimo sia favorevole alla controparte che, affermandolo come vero, glielo oppone. Non stupisce, allora, che nelle usuali movenze del linguaggio corrente, la confessione venga a delinearsi quale species, normativamente disciplinata, del genus «ammissione». Analoga operazione non può essere esperita per il processo penale; ove, come accennato, mancano sicuri capisaldi ai quali ancorare la nozione di confessione ovvero allignare una disciplina organica dell'istituto. Pur tuttavia, la esiguità di riferimenti normativi alla dichiarazione confessoria non deve indurre a ritenere che il legislatore si sia del tutto disinteressato alle problematiche concernenti l'acquisizione della contra se declaratio o che abbia inteso affidare le dinamiche della sua apprensione alle pericolose maglie della pratica giudiziale. L'interesse al tema, infatti, è fornito proprio dal fatto che, allo stato, esiste un corpus di norme, distribuito lungo tutto il sistema, che mirano, sia pur implicitamente, a prevenire possibili forme di costrizione fisica e morale, finalizzate all'ottenimento della confessione. Non si può parlare di un disegno organico, quanto piuttosto dì singole disposizioni che, in punti cruciali del sistema, si preoccupano di salvaguardare la libertà del soggetto cum quo res agitur per evitare che quest'ultimo venga leso nel suo fondamentale diritto alla prova. Dunque, lo spunto all'approfondimento speculativo scaturisce proprio dalla natura "ibrida" che il legislatore sembra assegnare alla confessione e, così, dalla polifunzionalità che l'istituto irradia all'interno dei diversi segmenti procedimentali. Infatti, se da un lato il legislatore non annovera la confessione tra i mezzi di prova tipici disciplinati al libro terzo del codice di rito, non sfuggirà che essa sembrerebbe sottratta —come ritenuto, tra l'altro, dalla giurisprudenza prevalente — ai parametri di valutazione probatoria cristallizzati all'art. 192 c.p.p. commi 3 e 4 c.p.p., apparendo come una prova dichiarativa "piena", e perciò insuscettiva di riscontro. Sotto diverso profilo, poi, alla confessione si conferisce una veste assolutamente singolare nell'assegnarle valore "propulsivo" ai fini della instaurazione del giudizio direttissimo: in tale contesto, addirittura, la confessione viene consacrata a mo' di "prova evidente", in deciso contrasto rispetto alla scelta di "esclusione" operata per la redazione del libro terzo. In questi passaggi, sembra compendiarsi un atteggiamento poco coerente del legislatore tale da impedire di fissare parametri di uniformità ai quali ispirare un discorso omogeneo sul tema della "confessione viene sollecitato, pertanto, l'interesse ad un approfondimento che pretenda proprio di individuare le linee di orientamento che hanno mosso il legislatore a richiamare, di volta in volta, l'attenzione sull'istituto confessorio.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.