Il punctum dolens che maggiormente emerge dallo studio delle misure de libertate è da sempre quello riguardante la delimitazione dell'arco temporale concernente l'intervento coattivo. Sulle linee portanti dell'istituto grava il diktat sancito dall'art. 13 ultimo comma della Carta costituzionale, il quale ― in sintonia con quanto disposto dagli artt. 5 § 3 e 6 § 1 della CEDU ― impone la previsione di termini massimi alla carcerazione preventiva. Le Carte dei Diritti fondamentali dedicano, infatti, particolare attenzione affinché nell’intero arco del procedimento penale e soprattutto nella fase delle misure cautelari sia garantito il rispetto di cadenze adeguate ad assicurare la tutela dei diritti dell’individuo.Dall’analisi degli ordinamenti contemporanei si possono sostanzialmente individuare due diversi modi di regolamentare la durata della custodia cautelare: a modelli che adeguano i termini di fase alla singola fattispecie di reato, se ne contrappongono altri che, invece, pongono un inderogabile limite temporale, il cui superamento è sanzionato ipso iure con la perdita d'efficacia della misura adottata. Quest'ultimo modello, che è quello adottato anche dal legislatore italiano, se da un lato dimostra una solida matrice garantista, dall'altro pecca di un automatismo eccessivo, che prescinde dalle esigenze del caso concreto. Da qui l'inevitabile ricerca di una breccia nelle maglie eccessivamente strette del modello c.d. «rigido», in risposta ad esigenze investigative che richiedono ulteriori approfondimenti. La prassi delle c.d. «contestazioni a catena» viene per l'appunto a perfezionarsi con il fine di prolungare artificiosamente la durata della custodia cautelare, mediante reiterate contestazioni del medesimo o di diversi fatti a carico di uno stesso imputato. Per lungo tempo affidata unicamente alla giurisprudenza, la repressione di tale pratica ha mirato a colpire sia le successive contestazioni del medesimo fatto, sia la diluizione nel tempo della contestazione di fatti diversi. Entro diversi ambiti è stato il metus applicato: mentre in merito alle plurime contestazioni in relazione ad un unico fatto si è riconosciuto pacificamente la legittimità delle successive ordinanze, ma senza che queste posponessero gli originari termini di custodia, nelle ipotesi di successive contestazioni di fatti diversi la giurisprudenza è solita richiedere la conoscibilità ab initio dei fatti e la dimostrazione dell'intento persecutorio da parte dell'autorità giudiziaria.Il costrutto giurisprudenziale è giunto correttamente a distinguere, all'interno del fenomeno delle «contestazioni a catena», un'ipotesi “fisiologica”, in cui si configura una condotta dell'organo di accusa pienamente legittima e caratterizzata dall'immediata richiesta cautelare non appena emergono le condizioni di applicabilità e le esigenze ex art. 274 c.p.p., da un'eventualità invece “patologica”, in cui la suddetta richiesta viene dolosamente ritardata dall'autorità giudiziaria procedente.Il pericolo da evitare, ieri come oggi, è infatti l'indebito prolungamento del termine custodiale quale frutto di un abuso discrezionale, e non il naturale sorgere di successive richieste.Tuttavia, nonostante lo sforzo del legislatore di porre fine a prassi contra legem, tuttavia permangono dubbi interpretativi sulla corretta applicazione del divieto contenuto nell'art. 297 comma 3 c.p.p., la cui farraginosa formulazione ha sollevato complesse questioni ermeneutiche in ordine ai presupposti che innescano il meccanismo della retrodatazione.Basti pensare alla non agevole individuazione del concetto di “stesso fatto” per il quale sia stata applicata, con diverse ordinanze, la medesima misura.A tale ultimo riguardo, merita di essere segnalato come appaia consolidata l'impostazione interpretativa che ricomprende in tale locuzione, quale denominatore comune, i tre elementi caratterizzanti l'oggettività del reato, ossia la condotta, l'evento ed il nesso di causalità. Ne consegue che, in presenza di un fatto identico — secondo l’accezione poc’anzi illustrata — la diversa e più grave qualificazione giuridica del medesimo non potrebbe determinare lo spostamento in avanti della decorrenza dei termini custodiali. L’unica conseguenza che deriverebbe da tale fenomeno sarebbe quella dell'emanazione di un nuovo provvedimento applicativo della misura, comportando che a tale ultima qualificazione vada rapportato il computo dei termini stessi.La disciplina in questione si applica, per espresso dettato normativo, anche nel caso in cui lo stesso fatto sia "diversamente qualificato o circostanziato", espressione alla quale la dottrina attribuisce un significato analogo rispetto alla nozione di “medesimo fatto” contenuta nel dettato dell'art. 649 c.p.p., comprendendo, sia l'una che l'altra, ogni possibile forma di realizzazione del fatto penalmente rilevante.L’interpretazione adottata dalla giurisprudenza non coincide con il traguardo raggiunto dalla dottrina. Si rimanda, all’uopo, a quell’indirizzo, secondo il quale la locuzione “stesso fatto” di cui al comma 3 dell’art. 297 c.p.p. ha un significato più ampio rispetto al concetto di “medesimo fatto” di cui all'art. 649 c.p.p.: soltanto il primo ricomprende tutte le diverse possibilità di commissione o di articolazione di una determinata condotta criminosa. Sicché, nel caso in cui ad un soggetto venga contestata l'esecuzione materiale di un delitto, per il quale lo stesso era stato già assolto dall'imputazione di esserne il mandante, è legittima l'emissione di un nuovo titolo custodiale, non potendosi ravvisare nelle differenti condotte addebitate il “medesimo fatto”; ma non è possibile che decorra un nuovo termine di custodia cautelare, poiché ricorre un'ipotesi di “stesso fatto” prevista dall'art. 297 comma 3 c.p.p.Per fare chiarezza sul punto ed evitare inconvenienti applicativi è bene chiarire come nel nostro sistema assuma precipua rilevanza il raccordo dell’accadimento storico alla fattispecie penale secondo la descrizione dei singoli comportamenti, oggettivi e soggettivi, nonché del risultato materiale dell’azione che si presume criminosa.Sicchè, il fatto processuale è l’oggetto della prova, mentre la successiva sussunzione nell’ambito di una fattispecie penale ne determina la punibilità; il primo è dato dalla materialità del comportamento, la seconda è un giudizio di valore: è questo il significato della scansione tra “fatto contestato” e norme violate, a diverso titolo e con diversa intensità, racchiusa negli artt. 375, 65, 415-bis, 417 ecc. c.p.p.E’ in questi ambiti che può parlarsi di “identità del fatto” oggetto di contestazione cautelare.

Le "contestazioni a catena" al vaglio della Corte costituzionale

GRIFFO M
2009-01-01

Abstract

Il punctum dolens che maggiormente emerge dallo studio delle misure de libertate è da sempre quello riguardante la delimitazione dell'arco temporale concernente l'intervento coattivo. Sulle linee portanti dell'istituto grava il diktat sancito dall'art. 13 ultimo comma della Carta costituzionale, il quale ― in sintonia con quanto disposto dagli artt. 5 § 3 e 6 § 1 della CEDU ― impone la previsione di termini massimi alla carcerazione preventiva. Le Carte dei Diritti fondamentali dedicano, infatti, particolare attenzione affinché nell’intero arco del procedimento penale e soprattutto nella fase delle misure cautelari sia garantito il rispetto di cadenze adeguate ad assicurare la tutela dei diritti dell’individuo.Dall’analisi degli ordinamenti contemporanei si possono sostanzialmente individuare due diversi modi di regolamentare la durata della custodia cautelare: a modelli che adeguano i termini di fase alla singola fattispecie di reato, se ne contrappongono altri che, invece, pongono un inderogabile limite temporale, il cui superamento è sanzionato ipso iure con la perdita d'efficacia della misura adottata. Quest'ultimo modello, che è quello adottato anche dal legislatore italiano, se da un lato dimostra una solida matrice garantista, dall'altro pecca di un automatismo eccessivo, che prescinde dalle esigenze del caso concreto. Da qui l'inevitabile ricerca di una breccia nelle maglie eccessivamente strette del modello c.d. «rigido», in risposta ad esigenze investigative che richiedono ulteriori approfondimenti. La prassi delle c.d. «contestazioni a catena» viene per l'appunto a perfezionarsi con il fine di prolungare artificiosamente la durata della custodia cautelare, mediante reiterate contestazioni del medesimo o di diversi fatti a carico di uno stesso imputato. Per lungo tempo affidata unicamente alla giurisprudenza, la repressione di tale pratica ha mirato a colpire sia le successive contestazioni del medesimo fatto, sia la diluizione nel tempo della contestazione di fatti diversi. Entro diversi ambiti è stato il metus applicato: mentre in merito alle plurime contestazioni in relazione ad un unico fatto si è riconosciuto pacificamente la legittimità delle successive ordinanze, ma senza che queste posponessero gli originari termini di custodia, nelle ipotesi di successive contestazioni di fatti diversi la giurisprudenza è solita richiedere la conoscibilità ab initio dei fatti e la dimostrazione dell'intento persecutorio da parte dell'autorità giudiziaria.Il costrutto giurisprudenziale è giunto correttamente a distinguere, all'interno del fenomeno delle «contestazioni a catena», un'ipotesi “fisiologica”, in cui si configura una condotta dell'organo di accusa pienamente legittima e caratterizzata dall'immediata richiesta cautelare non appena emergono le condizioni di applicabilità e le esigenze ex art. 274 c.p.p., da un'eventualità invece “patologica”, in cui la suddetta richiesta viene dolosamente ritardata dall'autorità giudiziaria procedente.Il pericolo da evitare, ieri come oggi, è infatti l'indebito prolungamento del termine custodiale quale frutto di un abuso discrezionale, e non il naturale sorgere di successive richieste.Tuttavia, nonostante lo sforzo del legislatore di porre fine a prassi contra legem, tuttavia permangono dubbi interpretativi sulla corretta applicazione del divieto contenuto nell'art. 297 comma 3 c.p.p., la cui farraginosa formulazione ha sollevato complesse questioni ermeneutiche in ordine ai presupposti che innescano il meccanismo della retrodatazione.Basti pensare alla non agevole individuazione del concetto di “stesso fatto” per il quale sia stata applicata, con diverse ordinanze, la medesima misura.A tale ultimo riguardo, merita di essere segnalato come appaia consolidata l'impostazione interpretativa che ricomprende in tale locuzione, quale denominatore comune, i tre elementi caratterizzanti l'oggettività del reato, ossia la condotta, l'evento ed il nesso di causalità. Ne consegue che, in presenza di un fatto identico — secondo l’accezione poc’anzi illustrata — la diversa e più grave qualificazione giuridica del medesimo non potrebbe determinare lo spostamento in avanti della decorrenza dei termini custodiali. L’unica conseguenza che deriverebbe da tale fenomeno sarebbe quella dell'emanazione di un nuovo provvedimento applicativo della misura, comportando che a tale ultima qualificazione vada rapportato il computo dei termini stessi.La disciplina in questione si applica, per espresso dettato normativo, anche nel caso in cui lo stesso fatto sia "diversamente qualificato o circostanziato", espressione alla quale la dottrina attribuisce un significato analogo rispetto alla nozione di “medesimo fatto” contenuta nel dettato dell'art. 649 c.p.p., comprendendo, sia l'una che l'altra, ogni possibile forma di realizzazione del fatto penalmente rilevante.L’interpretazione adottata dalla giurisprudenza non coincide con il traguardo raggiunto dalla dottrina. Si rimanda, all’uopo, a quell’indirizzo, secondo il quale la locuzione “stesso fatto” di cui al comma 3 dell’art. 297 c.p.p. ha un significato più ampio rispetto al concetto di “medesimo fatto” di cui all'art. 649 c.p.p.: soltanto il primo ricomprende tutte le diverse possibilità di commissione o di articolazione di una determinata condotta criminosa. Sicché, nel caso in cui ad un soggetto venga contestata l'esecuzione materiale di un delitto, per il quale lo stesso era stato già assolto dall'imputazione di esserne il mandante, è legittima l'emissione di un nuovo titolo custodiale, non potendosi ravvisare nelle differenti condotte addebitate il “medesimo fatto”; ma non è possibile che decorra un nuovo termine di custodia cautelare, poiché ricorre un'ipotesi di “stesso fatto” prevista dall'art. 297 comma 3 c.p.p.Per fare chiarezza sul punto ed evitare inconvenienti applicativi è bene chiarire come nel nostro sistema assuma precipua rilevanza il raccordo dell’accadimento storico alla fattispecie penale secondo la descrizione dei singoli comportamenti, oggettivi e soggettivi, nonché del risultato materiale dell’azione che si presume criminosa.Sicchè, il fatto processuale è l’oggetto della prova, mentre la successiva sussunzione nell’ambito di una fattispecie penale ne determina la punibilità; il primo è dato dalla materialità del comportamento, la seconda è un giudizio di valore: è questo il significato della scansione tra “fatto contestato” e norme violate, a diverso titolo e con diversa intensità, racchiusa negli artt. 375, 65, 415-bis, 417 ecc. c.p.p.E’ in questi ambiti che può parlarsi di “identità del fatto” oggetto di contestazione cautelare.
2009
contestazioni a catena; termini cautelari; custodia cautelare
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