PIERPAOLO FORTE Il principio di distinzione tra politica e amministrazione Torino, 2005 Abstract Nel capitolo primo (Alla ricerca dei caratteri della funzione amministrativa), l’ipotesi da cui il lavoro parte è che il tratto distintivo ed unificante della funzione amministrativa sia rappresentata dall'imparzialità e dal buon andamento di cui all'art. 97 Cost., per affermare, cioè, che è funzione amministrativa quella che, essendo caratterizzata dalla cura di interessi non propri ma già definiti in senso finalistico, debba rispettare una disciplina di legge, con la quale l'ordinamento predispone canoni che di imparzialità, purché si riesca a distinguere l'imparzialità, per un verso, dalla uguaglianza, e per altro dalla indipendenza neutrale. l'assunto è esaminato sotto diverse angolazioni. Si è verificato che i tratti identitari esaminati di un concetto metagiuridico di amministrazione su fatto altrui, cioè di attività volta al maneggio di interessi alieni, si possono riscontrare su vari livelli; si è potuto appurare, da un rapido confronto tra la disciplina privatistica e quella pubblicistica, che si possono trarre alcuni principi generali in tema di amministrazione tout court, laddove l'elemento teleologico del maneggiare interessi altrui provoca una sorta di naturale reazione dell'ordinamento, che è indotto ad un irrigidimento della disciplina degli atti di amministrazione, rispetto a quella che regge i medesimi atti quando sono volti alla cura di interessi propri; e s'è visto che l'ispessimento normativo sembra tendere proprio ad assicurare la migliore aderenza dell'attività di amministrazione alla soddisfazione dell'altrui interesse; e si è infine provato a riassumere il fenomeno, proponendo che esso sia sostanzialmente volto a rendere oggettiva, spersonalizzata rispetto all'agente, non-parziale, e cioè parziale in termini oggettivi, l'attività dell'amministratore. Si è quindi passati a verificarne, più puntualmente, il riscontro sul fronte dei principi costituzionali dell'amministrazione pubblica, ed trovando che i noti canoni dell'art. 97 sono pienamente compatibili con i termini generali proposti, poiché l'imparzialità e il buon andamento, con il collante della logicità (l'amministrazione imparziale produce efficienza se usa logicamente le incombenze dell'imparzialità), sono altrettanti mezzi di oggettivizzazione, posti in un ambito normativo, stante il principio di legalità e la riserva di legge ivi richiamati. Ed infine, si sono esaminate alcune riprove tratte dalla legislazione primaria, in special modo da quella generale dell'attività amministrativa, e dalla configurazione del vizio di eccesso di potere, anche trovando riscontri e coerenze con gli assunti precedenti. L'analisi ha portato, allora, ad affermare che l'attività amministrativa è quella per la quale la legge impone canoni giuridici di oggettivizzazione, la cui violazione rende passibile l'atto che la compia di invalidità in termini giuridici; che tali canoni, per la amministrazione pubblica, sono essenzialmente dati dall'imparzialità e dalla logicità, che insieme producono efficienza; da cui possiamo trarre che la compresenza di tutti tali elementi (orientamento alla cura di interessi dati e non propri, lo svolgimento dell'attività secondo canoni di imparzialità e logicità, e secondo un regime giuridico basato su legge) sembra, dunque, essere il tratto caratterizzante, identificativo della funzione amministrativa pubblica. Il principio di legalità, infatti, rende l'amministrazione pubblica una funzione, legandola a obbiettivi (interessi pubblici) e astringendola in limiti ritenuti coessenziali a principi, bisogni, cautele e libertà degli individui come della collettività; i principi di imparzialità e logicità (che, insieme, s'è visto garantiscono la propensione all'efficienza) sono invece i criteri giuridici che tendono ad assicurare la più volte richiamata oggettivizzazione, cioè la naturale caratteristica di un concetto giuridico di amministrazione. In quanto tratto identificativo, la compresenza di tali elementi dovrebbe essere in grado di distinguere la funzione amministrativa da altre attività connesse, in un approccio classico, a poteri pubblici tradizionali, in particolare quelli politico e giurisdizionale. La capacità di far ciò, anzi, potrebbe essere la riprova della validità di tale ricostruzione, se riuscisse laddove altri tentativi di descrizione qualificante sembrano falliti. Come negli atti di amministrazione privata, l’aver affermato che l’ordinamento tende a de-soggettivizzare l’attività amministrativa pubblica inquadra il tema solo parzialmente, in termini negativi. Manca tutta la parte positiva, quella cioè volta a comprendere quale sia l’obbiettivo della de-soggettivizzazione, e quindi in cosa consista l’oggettivizzazione, a cosa tenda, e a cosa sia, perciò, astretta. Come nell’amministrazione privata, il lavoro dimostra che non basta - in termini negativi - il distacco dell’amministratore dai suoi propri interessi, ma diventa sempre più chiaro che gli obblighi di questo sono più profondi, perché è chiamato - in termini positivi - a perseguire al meglio l’interesse alieno, così per l’amministrazione pubblica non è soddisfacente affermare che essa deve essere oggettiva, se questo significa solo che il decisore deve essere imparziale, ma occorre capire come essa sia indirizzata, e cercare quali siano gli elementi che la inducono a determinate scelte piuttosto che ad altre. Il secondo capitolo (L’indirizzo della politica all’amministrazione) parte anch’esso da una ipotesi, cioè che nell'attività politica che abbia ad oggetto l’amministrazione pubblica, gli interessi non sono giuridicamente dati, perché uno dei compiti della politica è quello di dare individuazione, connotato, identità agli interessi pubblici. Essa può essere trattata come una funzione, specie quando assume i tratti dell'indirizzo politico, e dunque soggiace a una qualche disciplina giuridica, della quale vengono esaminati alcuni connotati, scoprendo che anche in politica vi sono esigenze di oggettivizzazione, che tuttavia hanno tutt'altro aspetto rispetto a quelle riscontrate per la funzione amministrativa; infatti il compito politico, specie in regime di distinzione da quello amministrativo, finisce coll’essere condizionato dalle esigenze che è chiamato a soddisfare, e dunque i limiti giuridici cui può essere astretto sono molto meno rilevanti rispetto a quelli riscontrati per l’attività amministrativa, spesso collocati ad un livello di fonte costituzionale. Quando perciò la capacità di indirizzo nei confronti dell’amministrazione pubblica è esercitata in una sede a responsabilità politica, in regime di distinzione da quella, l’ambito costituzionale nel quale essa si muove è parzialmente diverso da quello amministrativo, come diversi sono i limiti che l’ordinamento predispone, e diverse sono le garanzie che si intendono assicurare; i confini giuridici dell’indirizzo della politica all’amministrazione, e la sua matrice costituzionale, in ultima analisi, non è l’art. 97 Cost., ma principalmente l’art. 3 Cost., e dunque è possibile tracciare uno dei confini tra politica e amministrazione, nei luoghi giuridici in cui si incrociano, intorno al fatto che questa è disciplinata, s'è visto, dai criteri dell'imparzialità logica, l'altra da quelli della uguaglianza ragionevole. L’analisi di taluni aspetti dell’indirizzo politico hanno provato a dimostrare come, ad oggi, sia difficile assumere che gli esecutivi (tutti gli esecutivi) non siano partecipi, se non addirittura attori principali, di indirizzo politico, e dunque siano investiti, in proprio, di responsabilità politico-elettorale, anche in una forma di governo parlamentare. Anche la politica, ed in particolare quell’area che fornisce un indirizzo, specie in un sistema costituzionale rigido, può essere ed è assoggettata ad una disciplina giuridica, e talvolta persino a vincoli costituzionali di scopo, di talché non sempre si può affermare che quella politica è attività ontologicamente libera nel fine, senza che ciò consenta di assimilare le decisioni di indirizzo politico a quelle amministrative, e cioè il margine di opzione politica con la discrezionalità amministrativa. Ciò spiega la differente disciplina ed il diverso regime giuridico che reggono la formazione e l’assunzione degli atti di indirizzo politico rispetto a quelli amministrativi; per quelli, anche allorché vi siano condizioni finalistiche, non vi è obbligo di evidenziazione pubblica, di partecipazione procedimentale, di motivazione, di decisione coerente con l’istruttoria, in piena coerenza con il diverso alveo costituzionale in cui si collocano: quello che per l’amministrazione è obbligo di imparzialità logica, per la politica è obbligo di uguaglianza ragionevole. Ne è riprova la valutazione giurisdizionale sulla loro legittimità, affidata a diversi poteri che, pur utilizzando una tecnica di giudizio apparentemente simile, almeno nella denominazione (in entrambi gli ambiti potendosi parlare di eccesso di potere), essa sia riferibile, in realtà, a valori e categorie non identiche. Il giudizio sugli atti politici, anche quando si rivolga a misure che ormai sembrano essere proprie di tutte le funzioni pubbliche (e dunque siano condivise dall'indirizzo politico e dall'amministrazione), quali la ragionevolezza e la proporzionalità, si basa prevalentemente su considerazioni esterne al processo formativo della scelta politica, riferite ad canoni o valori espliciti dell'ordinamento giuridico, e ad esso interni, o addirittura più vaghi, perché riconducibili a valori e concetti ultimi e molto "politici". Ed in particolare, quando viene operato un giudizio di compatibilità costituzionale sulla normativa riguardante l’amministrazione (e cioè su un atto politico in confronto all’organizzazione o all’attività amministrative), solo apparentemente il metro costituzionale è, anche in questa sede, l’art. 97 Cost., più normale essendo, anche sotto forma di obiter dictum, che il vero giudizio riguardi la ragionevolezza della scelta di indirizzo, e cioè il limite ultimo, nel nostro sistema, dell’utilizzo dei poteri unilaterali, implicando valutazioni inerenti al tema dell’uguaglianza. Il terzo capitolo (La distinzione della politica nell’amministrazione: caratteri dell’indirizzo politico-amministrativo) muove dall’assunto che ogni persona, fisica o giuridica, possiede una capacità di indirizzo, un governo di sé che la porta alle scelte concrete che la riguardano. E ciò, ovviamente, riguarda anche le persone giuridiche pubbliche, tutte dotate di una “funzione di indirizzo” che, a mente di una nota concezione, può essere “politico”, “politico-amministrativo”, “amministrativo”. Lo studio si è dunque diffuso ad indagare sulle conseguenze del principio di distinzione tra politica ed amministrazione, ed agli aggiornamenti interpretativi che, in forza di esso, molti temi classici del diritto amministrativo, oltre che della scienza dell’amministrazione, possono subire. Anzitutto, si è osservato come il presente momento storico, con riguardo all’amministrazione pubblica, sia attraversato da almeno due fenomeni disgiuntivi, l’uno, chiamato, appunto, distinzione, teso a far emergere i diversi ruoli dei decisori pubblici a seconda della propria origine prepositiva e, perciò, della diversità dei rispettivi poteri; l’altro, denominato invece separazione, volto ad affidare le scelte di amministrazione in taluni settori così detti sensibili ad autorità quanto più possibile sganciate dalla responsabilità politico-elettorale, e perciò definite indipendenti. S’è visto poi come la distinzione porti con se’ impatti notevoli sui profili organizzativi dell’amministrazione, laddove è ormai possibile osservare nelle amministrazioni pubbliche la sussistenza di due tipi di organi dotati di diverse responsabilità, con distinte competenze. Ma la distinzione incide, per questa via, anche sul regime dell’atto amministrativo, laddove è facile notare come, in primo luogo, la decisione di tipo amministrativo, provvedimentale o meno, sia ormai irrimediabilmente nella sfera di competenza degli organi a responsabilità amministrativa, tanto che un atto di gestione adottato da un organo a matrice politica, o persino un atto di indirizzo che, in realtà, si riveli una decisione amministrativa, sono, senza troppi giri di parole, illegittimi. Tanto ciò è vero che la decisione amministrativa, di competenza esclusiva del dirigente, è definitivamente adottata da questi, senza alcuna possibilità di revisione, modifica, o intervento di secondo grado da parte dell’organo a responsabilità politica, nemmeno in sede di rimedio gerarchico o quasi-giustiziale: i ricorsi amministrativi si esauriscono nella area della amministrazione, e non sfociano, come nel passato, in quella della politica. La rapida ricognizione di alcuni degli atti di competenza degli organi esecutivi a responsabilità politica, pur consapevole della propria inesaustività, ha però fatto notare come il percorso della distinzione non trova sempre coerenze tali da farla ritenere, già ad oggi, sistemica; si riscontrano poteri delle autorità di Governo ancora fortemente caratterizzati in termini amministrativi. La rassegna ha poi fatto osservare come essa sia strutturata più a somiglianza di quella degli atti di indirizzo politico che di quella riguardante gli atti propriamente amministrativi. Quanto all’antico tema dell’efficacia giuridica degli atti di indirizzo, s’è visto come essa sia essenzialmente imperniata intorno alla responsabilità dirigenziale, salve le ipotesi nelle quali l’atto sia assistito da forza normativa o comunque dalla esplicita sanzione della illegittimità dell’atto attuativo che con l’indirizzo contrasti, per il solo motivo che contrasto vi sia. Allorché invece il conflitto tra atto amministrativo ed indirizzo venga valutato sotto il profilo del corretto uso del potere amministrativo, e cioè si utilizzi il classico approccio dell’eccesso di potere, ciò che viene in ballo è un problema - ordinario, verrebbe di dire - di imparzialità, posto che in fin dei conti, la ragione dell’illegittimità, che infatti rimane eventuale, va ricercata con le tecniche che presidiano quell’obbligo, assistito, come si è avuto modo spesso di evidenziare, da un generale dovere di logicità. Si è cercato poi di capire quale sia il valore costituzionale dell’indirizzo politico-amministrativo, e anche raffrontando il suo ruolo con quanto avviene nell’amministrazione tra privati, si è potuti giungere alla conclusione, non dirompente né nuova, invero, che esso definisca elementi di buon andamento amministrativo, contribuendo da una migliore sistemazione in termini giuridici di quel principio allorché vada applicato all’amministrazione. Ed infatti il buon andamento, in regime di distinzione tra politica e amministrazione, viene dotato di uno strumentario giuridico che consente di definirne i contenuti ed i parametri di riferimento - gli atti di indirizzo politico-amministrativo - ed al contempo di un regime sanzionatorio formalizzato, e cioè della fissazione più chiara delle conseguenze giuridiche laddove, a motivo del mancato raggiungimento degli obbiettivi stabiliti in sede di indirizzo, e costituenti canoni di buon andamento, insorgono le conseguenze che qualificano l’efficacia degli atti medesimi, in primo luogo la responsabilità dirigenziale. L’osservazione del regime giuridico dell’atto di indirizzo, e l’affermazione del legame tra indirizzo politico-amministrativo e buon andamento, con i cascami che induce sul piano della responsabilità dirigenziale, ha indotto la ricerca ad addentrarsi su alcuni profili ricostruttivi di carattere istituzionale. In breve, si può affermare che le due funzioni - quella di indirizzo politico-amministrativo e quella amministrativa - non solo possono ormai tenersi distinte, ma che tutto tende a collocare il fondamento di ciascuno dei due poteri in un distinto ambito costituzionale, l’uno, a ragione della prevalente responsabilità politica, avvicinato a quello proprio della politica ed, in particolare, al principio di uguaglianza ragionevole di cui all’art. 3 Cost., l’altro trattenuto nel principio di imparzialità logica, di cui all’art. 97 Cost.. L’affermazione è basata sulla differenza tra ragionevolezza e proporzionalità, da un lato, e logicità, dall'altro, l’uno tipico canone di valutazione della compatibilità costituzionale delle scelte politiche, e prevalentemente esterno alla loro formazione in quanto legato, essenzialmente, al principio di uguaglianza, l’altro pure tipico del giudizio di legittimità delle scelte amministrative, ma tutto interno ad esse ed al loro formarsi, in connessione all’obbligo di imparzialità. Cosicché si spiega la vicinanza del regime degli atti di indirizzo politico-amministrativo con quello che regge gli atti di indirizzo politico, ed il fatto che la giurisprudenza, quando si occupa di atti di indirizzo politico-amministrativo (o almeno di quelli che più frequentemente arrivano al banco del Giudice, quali ad esempio i piani regolatori), ne valuta la legittimità sul piano dell’uso del potere utilizzando canoni di giudizio relativi ai così detti limiti esterni della discrezionalità, e cioè in termini non troppo distanti dai medesimi parametri utilizzati per la valutazione di coerenza degli atti di indirizzo politico con il principio di uguaglianza. Se le attività di indirizzo politico-amministrativo e amministrativa, pur apparentate dalla generale convivenza nell’alveo delle decisioni pubbliche, rispondono a diversi presupposti costituzionali, tendono a distinte finalità pubbliche, da cui derivano differenti regimi giuridici, in realtà abbiamo finito per descrivere due funzioni, che tuttavia derivano da una originaria unità; ciò comporta una sorta di spartizione di elementi funzionali un tempo comuni, liberando l’una e l’altra da orpelli evidentemente non ontologicamente propri. È possibile così affrancare la parte più propriamente politica dell’attività di governo, allocandola con maggiore accuratezza strutturale nei flussi decisionali retti dalla responsabilità politica, liberandola dall’equivoco dell’imparzialità; ed al reciproco, liberando la funzione amministrativa da molti residui di eccessivo soggettivismo che ancora la arrugginiscono, accomodandola meglio nel solco strutturale suo proprio, quello dell’art. 97, governato dal fulcro dell’imparzialità logica. La distinzione sistemica dalla sfera politica dell’amministrazione, insomma, passa anzitutto per la differenziazione del regime giuridico della decisione amministrativa; e non si può non notare come, per questa via, esso resta più facilmente, ed integralmente, relegato nel perimetro dell’art. 97 Cost.: l’imparzialità resta il carattere di legittimità dell’atto giuridico dell’amministrazione, anche per il tramite dell’ossequio alla disciplina sub costituzionale che vi dà più concreta definizione. Cosicché, il principio di distinzione incide, come è ovvio, anche sulla posizione istituzionale, politica e sociale dell’amministrazione, in rapporto al Governo. Su tale argomento si fronteggiano da tempo diverse visioni; in sintesi, ad alcuni pare che l’amministrazione si debba identificare come oggettivata nella società, e organizzata in tale guisa, e ad altri invece essa appare come potere strutturato e organizzato in termini propri, con vari collegamenti con il Governo come con la collettività. E’ possibile che le due visioni possano coesistere e trovare sintesi proprio con i materiali raccolti: in sostanza, quando la politica, anche in sede esecutiva, assume decisioni valevoli per l’amministrazione, finisce con l’assumersi le responsabilità di quegli indirizzi, restringendo la discrezionalità dell’amministrazione, la quale però rimane integralmente capace, ed anzi in dovere, di assumersi quelle medesime responsabilità quando la politica rinuncia ad intromettersi eccessivamente, e vede così ampliare lo spazio politico della discrezionalità, del suo riferimento sociale. Ciò che rimane invalicabile, ed anzi sembra ricevere un potenziamento da quanto si è andati dicendo, è la sussistenza del potere amministrativo come realtà decisionale pubblica propria, non solo perché distinta da quella d’origine politica, ma in ragione del perimetro che oggi la presidia, la competenza all’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, oltre che di una serie di atti a contenuto ed effetti organizzativi e direttivi. Ciò dovrebbe garantire sia l’amministrazione, perché il proprio ambito è assistito da sanzioni di legittimità dall’invadenza eccessiva ad opera del livello politico, sia, per via derivata, all’intera collettività, laddove l’intermediazione protetta dell’amministrazione tende a garantire i profili dell’imparzialità, a guisa di argine contro i pericoli della predominanza delle necessità di parte politica.

Il principio di distinzione tra politica e amministrazione

FORTE P
2005-01-01

Abstract

PIERPAOLO FORTE Il principio di distinzione tra politica e amministrazione Torino, 2005 Abstract Nel capitolo primo (Alla ricerca dei caratteri della funzione amministrativa), l’ipotesi da cui il lavoro parte è che il tratto distintivo ed unificante della funzione amministrativa sia rappresentata dall'imparzialità e dal buon andamento di cui all'art. 97 Cost., per affermare, cioè, che è funzione amministrativa quella che, essendo caratterizzata dalla cura di interessi non propri ma già definiti in senso finalistico, debba rispettare una disciplina di legge, con la quale l'ordinamento predispone canoni che di imparzialità, purché si riesca a distinguere l'imparzialità, per un verso, dalla uguaglianza, e per altro dalla indipendenza neutrale. l'assunto è esaminato sotto diverse angolazioni. Si è verificato che i tratti identitari esaminati di un concetto metagiuridico di amministrazione su fatto altrui, cioè di attività volta al maneggio di interessi alieni, si possono riscontrare su vari livelli; si è potuto appurare, da un rapido confronto tra la disciplina privatistica e quella pubblicistica, che si possono trarre alcuni principi generali in tema di amministrazione tout court, laddove l'elemento teleologico del maneggiare interessi altrui provoca una sorta di naturale reazione dell'ordinamento, che è indotto ad un irrigidimento della disciplina degli atti di amministrazione, rispetto a quella che regge i medesimi atti quando sono volti alla cura di interessi propri; e s'è visto che l'ispessimento normativo sembra tendere proprio ad assicurare la migliore aderenza dell'attività di amministrazione alla soddisfazione dell'altrui interesse; e si è infine provato a riassumere il fenomeno, proponendo che esso sia sostanzialmente volto a rendere oggettiva, spersonalizzata rispetto all'agente, non-parziale, e cioè parziale in termini oggettivi, l'attività dell'amministratore. Si è quindi passati a verificarne, più puntualmente, il riscontro sul fronte dei principi costituzionali dell'amministrazione pubblica, ed trovando che i noti canoni dell'art. 97 sono pienamente compatibili con i termini generali proposti, poiché l'imparzialità e il buon andamento, con il collante della logicità (l'amministrazione imparziale produce efficienza se usa logicamente le incombenze dell'imparzialità), sono altrettanti mezzi di oggettivizzazione, posti in un ambito normativo, stante il principio di legalità e la riserva di legge ivi richiamati. Ed infine, si sono esaminate alcune riprove tratte dalla legislazione primaria, in special modo da quella generale dell'attività amministrativa, e dalla configurazione del vizio di eccesso di potere, anche trovando riscontri e coerenze con gli assunti precedenti. L'analisi ha portato, allora, ad affermare che l'attività amministrativa è quella per la quale la legge impone canoni giuridici di oggettivizzazione, la cui violazione rende passibile l'atto che la compia di invalidità in termini giuridici; che tali canoni, per la amministrazione pubblica, sono essenzialmente dati dall'imparzialità e dalla logicità, che insieme producono efficienza; da cui possiamo trarre che la compresenza di tutti tali elementi (orientamento alla cura di interessi dati e non propri, lo svolgimento dell'attività secondo canoni di imparzialità e logicità, e secondo un regime giuridico basato su legge) sembra, dunque, essere il tratto caratterizzante, identificativo della funzione amministrativa pubblica. Il principio di legalità, infatti, rende l'amministrazione pubblica una funzione, legandola a obbiettivi (interessi pubblici) e astringendola in limiti ritenuti coessenziali a principi, bisogni, cautele e libertà degli individui come della collettività; i principi di imparzialità e logicità (che, insieme, s'è visto garantiscono la propensione all'efficienza) sono invece i criteri giuridici che tendono ad assicurare la più volte richiamata oggettivizzazione, cioè la naturale caratteristica di un concetto giuridico di amministrazione. In quanto tratto identificativo, la compresenza di tali elementi dovrebbe essere in grado di distinguere la funzione amministrativa da altre attività connesse, in un approccio classico, a poteri pubblici tradizionali, in particolare quelli politico e giurisdizionale. La capacità di far ciò, anzi, potrebbe essere la riprova della validità di tale ricostruzione, se riuscisse laddove altri tentativi di descrizione qualificante sembrano falliti. Come negli atti di amministrazione privata, l’aver affermato che l’ordinamento tende a de-soggettivizzare l’attività amministrativa pubblica inquadra il tema solo parzialmente, in termini negativi. Manca tutta la parte positiva, quella cioè volta a comprendere quale sia l’obbiettivo della de-soggettivizzazione, e quindi in cosa consista l’oggettivizzazione, a cosa tenda, e a cosa sia, perciò, astretta. Come nell’amministrazione privata, il lavoro dimostra che non basta - in termini negativi - il distacco dell’amministratore dai suoi propri interessi, ma diventa sempre più chiaro che gli obblighi di questo sono più profondi, perché è chiamato - in termini positivi - a perseguire al meglio l’interesse alieno, così per l’amministrazione pubblica non è soddisfacente affermare che essa deve essere oggettiva, se questo significa solo che il decisore deve essere imparziale, ma occorre capire come essa sia indirizzata, e cercare quali siano gli elementi che la inducono a determinate scelte piuttosto che ad altre. Il secondo capitolo (L’indirizzo della politica all’amministrazione) parte anch’esso da una ipotesi, cioè che nell'attività politica che abbia ad oggetto l’amministrazione pubblica, gli interessi non sono giuridicamente dati, perché uno dei compiti della politica è quello di dare individuazione, connotato, identità agli interessi pubblici. Essa può essere trattata come una funzione, specie quando assume i tratti dell'indirizzo politico, e dunque soggiace a una qualche disciplina giuridica, della quale vengono esaminati alcuni connotati, scoprendo che anche in politica vi sono esigenze di oggettivizzazione, che tuttavia hanno tutt'altro aspetto rispetto a quelle riscontrate per la funzione amministrativa; infatti il compito politico, specie in regime di distinzione da quello amministrativo, finisce coll’essere condizionato dalle esigenze che è chiamato a soddisfare, e dunque i limiti giuridici cui può essere astretto sono molto meno rilevanti rispetto a quelli riscontrati per l’attività amministrativa, spesso collocati ad un livello di fonte costituzionale. Quando perciò la capacità di indirizzo nei confronti dell’amministrazione pubblica è esercitata in una sede a responsabilità politica, in regime di distinzione da quella, l’ambito costituzionale nel quale essa si muove è parzialmente diverso da quello amministrativo, come diversi sono i limiti che l’ordinamento predispone, e diverse sono le garanzie che si intendono assicurare; i confini giuridici dell’indirizzo della politica all’amministrazione, e la sua matrice costituzionale, in ultima analisi, non è l’art. 97 Cost., ma principalmente l’art. 3 Cost., e dunque è possibile tracciare uno dei confini tra politica e amministrazione, nei luoghi giuridici in cui si incrociano, intorno al fatto che questa è disciplinata, s'è visto, dai criteri dell'imparzialità logica, l'altra da quelli della uguaglianza ragionevole. L’analisi di taluni aspetti dell’indirizzo politico hanno provato a dimostrare come, ad oggi, sia difficile assumere che gli esecutivi (tutti gli esecutivi) non siano partecipi, se non addirittura attori principali, di indirizzo politico, e dunque siano investiti, in proprio, di responsabilità politico-elettorale, anche in una forma di governo parlamentare. Anche la politica, ed in particolare quell’area che fornisce un indirizzo, specie in un sistema costituzionale rigido, può essere ed è assoggettata ad una disciplina giuridica, e talvolta persino a vincoli costituzionali di scopo, di talché non sempre si può affermare che quella politica è attività ontologicamente libera nel fine, senza che ciò consenta di assimilare le decisioni di indirizzo politico a quelle amministrative, e cioè il margine di opzione politica con la discrezionalità amministrativa. Ciò spiega la differente disciplina ed il diverso regime giuridico che reggono la formazione e l’assunzione degli atti di indirizzo politico rispetto a quelli amministrativi; per quelli, anche allorché vi siano condizioni finalistiche, non vi è obbligo di evidenziazione pubblica, di partecipazione procedimentale, di motivazione, di decisione coerente con l’istruttoria, in piena coerenza con il diverso alveo costituzionale in cui si collocano: quello che per l’amministrazione è obbligo di imparzialità logica, per la politica è obbligo di uguaglianza ragionevole. Ne è riprova la valutazione giurisdizionale sulla loro legittimità, affidata a diversi poteri che, pur utilizzando una tecnica di giudizio apparentemente simile, almeno nella denominazione (in entrambi gli ambiti potendosi parlare di eccesso di potere), essa sia riferibile, in realtà, a valori e categorie non identiche. Il giudizio sugli atti politici, anche quando si rivolga a misure che ormai sembrano essere proprie di tutte le funzioni pubbliche (e dunque siano condivise dall'indirizzo politico e dall'amministrazione), quali la ragionevolezza e la proporzionalità, si basa prevalentemente su considerazioni esterne al processo formativo della scelta politica, riferite ad canoni o valori espliciti dell'ordinamento giuridico, e ad esso interni, o addirittura più vaghi, perché riconducibili a valori e concetti ultimi e molto "politici". Ed in particolare, quando viene operato un giudizio di compatibilità costituzionale sulla normativa riguardante l’amministrazione (e cioè su un atto politico in confronto all’organizzazione o all’attività amministrative), solo apparentemente il metro costituzionale è, anche in questa sede, l’art. 97 Cost., più normale essendo, anche sotto forma di obiter dictum, che il vero giudizio riguardi la ragionevolezza della scelta di indirizzo, e cioè il limite ultimo, nel nostro sistema, dell’utilizzo dei poteri unilaterali, implicando valutazioni inerenti al tema dell’uguaglianza. Il terzo capitolo (La distinzione della politica nell’amministrazione: caratteri dell’indirizzo politico-amministrativo) muove dall’assunto che ogni persona, fisica o giuridica, possiede una capacità di indirizzo, un governo di sé che la porta alle scelte concrete che la riguardano. E ciò, ovviamente, riguarda anche le persone giuridiche pubbliche, tutte dotate di una “funzione di indirizzo” che, a mente di una nota concezione, può essere “politico”, “politico-amministrativo”, “amministrativo”. Lo studio si è dunque diffuso ad indagare sulle conseguenze del principio di distinzione tra politica ed amministrazione, ed agli aggiornamenti interpretativi che, in forza di esso, molti temi classici del diritto amministrativo, oltre che della scienza dell’amministrazione, possono subire. Anzitutto, si è osservato come il presente momento storico, con riguardo all’amministrazione pubblica, sia attraversato da almeno due fenomeni disgiuntivi, l’uno, chiamato, appunto, distinzione, teso a far emergere i diversi ruoli dei decisori pubblici a seconda della propria origine prepositiva e, perciò, della diversità dei rispettivi poteri; l’altro, denominato invece separazione, volto ad affidare le scelte di amministrazione in taluni settori così detti sensibili ad autorità quanto più possibile sganciate dalla responsabilità politico-elettorale, e perciò definite indipendenti. S’è visto poi come la distinzione porti con se’ impatti notevoli sui profili organizzativi dell’amministrazione, laddove è ormai possibile osservare nelle amministrazioni pubbliche la sussistenza di due tipi di organi dotati di diverse responsabilità, con distinte competenze. Ma la distinzione incide, per questa via, anche sul regime dell’atto amministrativo, laddove è facile notare come, in primo luogo, la decisione di tipo amministrativo, provvedimentale o meno, sia ormai irrimediabilmente nella sfera di competenza degli organi a responsabilità amministrativa, tanto che un atto di gestione adottato da un organo a matrice politica, o persino un atto di indirizzo che, in realtà, si riveli una decisione amministrativa, sono, senza troppi giri di parole, illegittimi. Tanto ciò è vero che la decisione amministrativa, di competenza esclusiva del dirigente, è definitivamente adottata da questi, senza alcuna possibilità di revisione, modifica, o intervento di secondo grado da parte dell’organo a responsabilità politica, nemmeno in sede di rimedio gerarchico o quasi-giustiziale: i ricorsi amministrativi si esauriscono nella area della amministrazione, e non sfociano, come nel passato, in quella della politica. La rapida ricognizione di alcuni degli atti di competenza degli organi esecutivi a responsabilità politica, pur consapevole della propria inesaustività, ha però fatto notare come il percorso della distinzione non trova sempre coerenze tali da farla ritenere, già ad oggi, sistemica; si riscontrano poteri delle autorità di Governo ancora fortemente caratterizzati in termini amministrativi. La rassegna ha poi fatto osservare come essa sia strutturata più a somiglianza di quella degli atti di indirizzo politico che di quella riguardante gli atti propriamente amministrativi. Quanto all’antico tema dell’efficacia giuridica degli atti di indirizzo, s’è visto come essa sia essenzialmente imperniata intorno alla responsabilità dirigenziale, salve le ipotesi nelle quali l’atto sia assistito da forza normativa o comunque dalla esplicita sanzione della illegittimità dell’atto attuativo che con l’indirizzo contrasti, per il solo motivo che contrasto vi sia. Allorché invece il conflitto tra atto amministrativo ed indirizzo venga valutato sotto il profilo del corretto uso del potere amministrativo, e cioè si utilizzi il classico approccio dell’eccesso di potere, ciò che viene in ballo è un problema - ordinario, verrebbe di dire - di imparzialità, posto che in fin dei conti, la ragione dell’illegittimità, che infatti rimane eventuale, va ricercata con le tecniche che presidiano quell’obbligo, assistito, come si è avuto modo spesso di evidenziare, da un generale dovere di logicità. Si è cercato poi di capire quale sia il valore costituzionale dell’indirizzo politico-amministrativo, e anche raffrontando il suo ruolo con quanto avviene nell’amministrazione tra privati, si è potuti giungere alla conclusione, non dirompente né nuova, invero, che esso definisca elementi di buon andamento amministrativo, contribuendo da una migliore sistemazione in termini giuridici di quel principio allorché vada applicato all’amministrazione. Ed infatti il buon andamento, in regime di distinzione tra politica e amministrazione, viene dotato di uno strumentario giuridico che consente di definirne i contenuti ed i parametri di riferimento - gli atti di indirizzo politico-amministrativo - ed al contempo di un regime sanzionatorio formalizzato, e cioè della fissazione più chiara delle conseguenze giuridiche laddove, a motivo del mancato raggiungimento degli obbiettivi stabiliti in sede di indirizzo, e costituenti canoni di buon andamento, insorgono le conseguenze che qualificano l’efficacia degli atti medesimi, in primo luogo la responsabilità dirigenziale. L’osservazione del regime giuridico dell’atto di indirizzo, e l’affermazione del legame tra indirizzo politico-amministrativo e buon andamento, con i cascami che induce sul piano della responsabilità dirigenziale, ha indotto la ricerca ad addentrarsi su alcuni profili ricostruttivi di carattere istituzionale. In breve, si può affermare che le due funzioni - quella di indirizzo politico-amministrativo e quella amministrativa - non solo possono ormai tenersi distinte, ma che tutto tende a collocare il fondamento di ciascuno dei due poteri in un distinto ambito costituzionale, l’uno, a ragione della prevalente responsabilità politica, avvicinato a quello proprio della politica ed, in particolare, al principio di uguaglianza ragionevole di cui all’art. 3 Cost., l’altro trattenuto nel principio di imparzialità logica, di cui all’art. 97 Cost.. L’affermazione è basata sulla differenza tra ragionevolezza e proporzionalità, da un lato, e logicità, dall'altro, l’uno tipico canone di valutazione della compatibilità costituzionale delle scelte politiche, e prevalentemente esterno alla loro formazione in quanto legato, essenzialmente, al principio di uguaglianza, l’altro pure tipico del giudizio di legittimità delle scelte amministrative, ma tutto interno ad esse ed al loro formarsi, in connessione all’obbligo di imparzialità. Cosicché si spiega la vicinanza del regime degli atti di indirizzo politico-amministrativo con quello che regge gli atti di indirizzo politico, ed il fatto che la giurisprudenza, quando si occupa di atti di indirizzo politico-amministrativo (o almeno di quelli che più frequentemente arrivano al banco del Giudice, quali ad esempio i piani regolatori), ne valuta la legittimità sul piano dell’uso del potere utilizzando canoni di giudizio relativi ai così detti limiti esterni della discrezionalità, e cioè in termini non troppo distanti dai medesimi parametri utilizzati per la valutazione di coerenza degli atti di indirizzo politico con il principio di uguaglianza. Se le attività di indirizzo politico-amministrativo e amministrativa, pur apparentate dalla generale convivenza nell’alveo delle decisioni pubbliche, rispondono a diversi presupposti costituzionali, tendono a distinte finalità pubbliche, da cui derivano differenti regimi giuridici, in realtà abbiamo finito per descrivere due funzioni, che tuttavia derivano da una originaria unità; ciò comporta una sorta di spartizione di elementi funzionali un tempo comuni, liberando l’una e l’altra da orpelli evidentemente non ontologicamente propri. È possibile così affrancare la parte più propriamente politica dell’attività di governo, allocandola con maggiore accuratezza strutturale nei flussi decisionali retti dalla responsabilità politica, liberandola dall’equivoco dell’imparzialità; ed al reciproco, liberando la funzione amministrativa da molti residui di eccessivo soggettivismo che ancora la arrugginiscono, accomodandola meglio nel solco strutturale suo proprio, quello dell’art. 97, governato dal fulcro dell’imparzialità logica. La distinzione sistemica dalla sfera politica dell’amministrazione, insomma, passa anzitutto per la differenziazione del regime giuridico della decisione amministrativa; e non si può non notare come, per questa via, esso resta più facilmente, ed integralmente, relegato nel perimetro dell’art. 97 Cost.: l’imparzialità resta il carattere di legittimità dell’atto giuridico dell’amministrazione, anche per il tramite dell’ossequio alla disciplina sub costituzionale che vi dà più concreta definizione. Cosicché, il principio di distinzione incide, come è ovvio, anche sulla posizione istituzionale, politica e sociale dell’amministrazione, in rapporto al Governo. Su tale argomento si fronteggiano da tempo diverse visioni; in sintesi, ad alcuni pare che l’amministrazione si debba identificare come oggettivata nella società, e organizzata in tale guisa, e ad altri invece essa appare come potere strutturato e organizzato in termini propri, con vari collegamenti con il Governo come con la collettività. E’ possibile che le due visioni possano coesistere e trovare sintesi proprio con i materiali raccolti: in sostanza, quando la politica, anche in sede esecutiva, assume decisioni valevoli per l’amministrazione, finisce con l’assumersi le responsabilità di quegli indirizzi, restringendo la discrezionalità dell’amministrazione, la quale però rimane integralmente capace, ed anzi in dovere, di assumersi quelle medesime responsabilità quando la politica rinuncia ad intromettersi eccessivamente, e vede così ampliare lo spazio politico della discrezionalità, del suo riferimento sociale. Ciò che rimane invalicabile, ed anzi sembra ricevere un potenziamento da quanto si è andati dicendo, è la sussistenza del potere amministrativo come realtà decisionale pubblica propria, non solo perché distinta da quella d’origine politica, ma in ragione del perimetro che oggi la presidia, la competenza all’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, oltre che di una serie di atti a contenuto ed effetti organizzativi e direttivi. Ciò dovrebbe garantire sia l’amministrazione, perché il proprio ambito è assistito da sanzioni di legittimità dall’invadenza eccessiva ad opera del livello politico, sia, per via derivata, all’intera collettività, laddove l’intermediazione protetta dell’amministrazione tende a garantire i profili dell’imparzialità, a guisa di argine contro i pericoli della predominanza delle necessità di parte politica.
2005
88-348-5658-9
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.12070/14093
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