Il percorso espositivo tende ad una ricostruzione del preteso assestamento in sede comunitaria di una nozione di impresa agricola chiarendo, in premessa, che non esiste nel diritto comunitario una nozione uniforme e compiutamente intelligibile di “impresa agricola”; e ciò nonostante una rigida delimitazione dei confini segnati dalla politica agricola comune (PAC) – sede naturale della ricerca di una base normativa comune –, attraverso l’elencazione tassativa dei “prodotti agricoli”, contenuta nell’Allegato I del Trattato CE (ex Allegato II), emersa al diritto positivo mediante il dettato dell’art. 32, paragrafi 1 e 3, del medesimo Trattato. Se l’ordinamento italiano ha allestito un complesso edificio dogmatico sulle fondamenta della nozione di impresa agricola, tali fondamenta sono destinate a precipitare nel fondale sabbioso su cui sono state erette, alla stregua del diritto agrario comunitario. E qui rilevano i ricchissimi dati ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea che, nell’occuparsi di questioni gestionali di imprese pacificamente estranee alla definizione nazionale di impresa agricola, ha motivato i propri dispositivi sul presupposto del diritto agrario comunitario, che veste (e spesso traveste), per via analogica, la nozione di impresa agricola nazionale con il tessuto connettivo della PAC (si pensi all’estensione ai produttori di beni estranei all’Allegato I dei vincoli normativi PAC). Nell’originario preambolo del Trattato istitutivo della Comunità economica europea (CEE) del 1957 le “imprese” vivevano come soggetti attivi, ma presupposti, di un mercato di nuovo conio, nel quale bisognava concentrare gli sforzi affinché gli ostacoli esistenti fossero eliminati per garantire la stabilità nell’espansione, l’equilibrio negli scambi e la lealtà nella concorrenza: nei passaggi essenziali di quel Trattato, le imprese non venivano mai esplicitamente menzionate, ma il loro apparato concettuale viveva con esse, ponendo ardui problemi di comparazione giuridica. Il diritto agrario comunitario, oltre ad occuparsi delle questioni relative al mercato comune dei prodotti agricoli, si è sempre posto il problema delle “strutture agricole”, ossia delle imprese agricole. Esso, al fine di attuare la riforma strutturale agraria (ritenuta necessaria per supportare il reddito degli agricoltori e garantire condizioni durature di sviluppo economico) individuò la nozione di imprenditore agricolo a titolo principale (dove rilevavano, in maniera innovativa, reddito e tempo di lavoro riferiti all’attività), che ha avuto nel diritto italiano una fortuna superiore alle più rosee aspettative dello stesso legislatore comunitario. Secondo qualche autore, però, la natura profondamente sociale degli interessi protetti che finisce per ricondurre l’agricoltore alla figura astratta di un “contraente debole” in sé – indipendentemente dal concreto assetto degli interessi medesimi –, induce storicamente ad un rinvio ai singoli diritti nazionali, che presidiano con un grado di maggiore prossimità le aree di tutela dei diritti sociali. Può dirsi, perciò, che nel diritto comunitario la nozione di impresa agricola, pur evocata e in certi casi delineata con il crisma normativo, rinvia, mediante i limiti sopra detti, che sono quelli di una pervasività delle ragioni ultra nazionali del mercato, ai contenuti delle diverse normative nazionali e, in quanto tale, impone una massiccia ricerca comparatistica. E ciò in quanto la nozione di imprenditore agricolo incide sull’attribuzione di una copiosa quantità di aiuti provenienti dall’Unione o resi coerenti con le sue politiche, anche attraverso l’oscuro meccanismo analogico sopra indicato. L’impatto economico, a tratti sovrabbondante, si coniuga con esigenze di ricerca nel quadro concettuale giuridico. Il legislatore comunitario, allorché parla di impresa (recte, azienda) agricola, rischia di contraddire se stesso, ove trasfonda alla tentazione del governo assoluto delle cose. Il percorso di analisi della “disputa” agricola (che non limita la sua sfera d’azione ai confini dell’Unione europea) è irto di difficoltà: si tenta di fissare paletti mediante norme interne agli Stati membri (vedasi art. 2135 cod. civ.), ma si travalica l’argine appena costituito, consentendo la definizione di elementi caratterizzanti la fattispecie con le OCM (art. 34 Trattato CE) o le “azioni comuni per il miglioramento delle condizioni di trasformazione e di commercializzazione dei prodotti agricoli”, marcando la nozione privatistica di impresa agricola di fenomeni pubblicistici diffusamente legati alla finanza comunitaria (art. 34, paragrafo 3, Trattato CE). Sull’applicazione della normativa comunitaria intervengono, per altro, centri decisionali non solo di livello internazionale (WTO) e nazionale, ma anche regionale e locale e, in forme diversificate, una pluralità di soggetti privati, singoli o, meglio ancora, associati.

L'impresa agricola nel diritto comunitario: spunti di riflessione sulla crisi di sistematicità del sistema

CASUCCI F
2008-01-01

Abstract

Il percorso espositivo tende ad una ricostruzione del preteso assestamento in sede comunitaria di una nozione di impresa agricola chiarendo, in premessa, che non esiste nel diritto comunitario una nozione uniforme e compiutamente intelligibile di “impresa agricola”; e ciò nonostante una rigida delimitazione dei confini segnati dalla politica agricola comune (PAC) – sede naturale della ricerca di una base normativa comune –, attraverso l’elencazione tassativa dei “prodotti agricoli”, contenuta nell’Allegato I del Trattato CE (ex Allegato II), emersa al diritto positivo mediante il dettato dell’art. 32, paragrafi 1 e 3, del medesimo Trattato. Se l’ordinamento italiano ha allestito un complesso edificio dogmatico sulle fondamenta della nozione di impresa agricola, tali fondamenta sono destinate a precipitare nel fondale sabbioso su cui sono state erette, alla stregua del diritto agrario comunitario. E qui rilevano i ricchissimi dati ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea che, nell’occuparsi di questioni gestionali di imprese pacificamente estranee alla definizione nazionale di impresa agricola, ha motivato i propri dispositivi sul presupposto del diritto agrario comunitario, che veste (e spesso traveste), per via analogica, la nozione di impresa agricola nazionale con il tessuto connettivo della PAC (si pensi all’estensione ai produttori di beni estranei all’Allegato I dei vincoli normativi PAC). Nell’originario preambolo del Trattato istitutivo della Comunità economica europea (CEE) del 1957 le “imprese” vivevano come soggetti attivi, ma presupposti, di un mercato di nuovo conio, nel quale bisognava concentrare gli sforzi affinché gli ostacoli esistenti fossero eliminati per garantire la stabilità nell’espansione, l’equilibrio negli scambi e la lealtà nella concorrenza: nei passaggi essenziali di quel Trattato, le imprese non venivano mai esplicitamente menzionate, ma il loro apparato concettuale viveva con esse, ponendo ardui problemi di comparazione giuridica. Il diritto agrario comunitario, oltre ad occuparsi delle questioni relative al mercato comune dei prodotti agricoli, si è sempre posto il problema delle “strutture agricole”, ossia delle imprese agricole. Esso, al fine di attuare la riforma strutturale agraria (ritenuta necessaria per supportare il reddito degli agricoltori e garantire condizioni durature di sviluppo economico) individuò la nozione di imprenditore agricolo a titolo principale (dove rilevavano, in maniera innovativa, reddito e tempo di lavoro riferiti all’attività), che ha avuto nel diritto italiano una fortuna superiore alle più rosee aspettative dello stesso legislatore comunitario. Secondo qualche autore, però, la natura profondamente sociale degli interessi protetti che finisce per ricondurre l’agricoltore alla figura astratta di un “contraente debole” in sé – indipendentemente dal concreto assetto degli interessi medesimi –, induce storicamente ad un rinvio ai singoli diritti nazionali, che presidiano con un grado di maggiore prossimità le aree di tutela dei diritti sociali. Può dirsi, perciò, che nel diritto comunitario la nozione di impresa agricola, pur evocata e in certi casi delineata con il crisma normativo, rinvia, mediante i limiti sopra detti, che sono quelli di una pervasività delle ragioni ultra nazionali del mercato, ai contenuti delle diverse normative nazionali e, in quanto tale, impone una massiccia ricerca comparatistica. E ciò in quanto la nozione di imprenditore agricolo incide sull’attribuzione di una copiosa quantità di aiuti provenienti dall’Unione o resi coerenti con le sue politiche, anche attraverso l’oscuro meccanismo analogico sopra indicato. L’impatto economico, a tratti sovrabbondante, si coniuga con esigenze di ricerca nel quadro concettuale giuridico. Il legislatore comunitario, allorché parla di impresa (recte, azienda) agricola, rischia di contraddire se stesso, ove trasfonda alla tentazione del governo assoluto delle cose. Il percorso di analisi della “disputa” agricola (che non limita la sua sfera d’azione ai confini dell’Unione europea) è irto di difficoltà: si tenta di fissare paletti mediante norme interne agli Stati membri (vedasi art. 2135 cod. civ.), ma si travalica l’argine appena costituito, consentendo la definizione di elementi caratterizzanti la fattispecie con le OCM (art. 34 Trattato CE) o le “azioni comuni per il miglioramento delle condizioni di trasformazione e di commercializzazione dei prodotti agricoli”, marcando la nozione privatistica di impresa agricola di fenomeni pubblicistici diffusamente legati alla finanza comunitaria (art. 34, paragrafo 3, Trattato CE). Sull’applicazione della normativa comunitaria intervengono, per altro, centri decisionali non solo di livello internazionale (WTO) e nazionale, ma anche regionale e locale e, in forme diversificate, una pluralità di soggetti privati, singoli o, meglio ancora, associati.
2008
978-88-495-1749-1
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